giovedì 7 giugno 2007

Oggi ho cambiato posto per correre, ho preso una strada, in mezzo alle paludi tra S. Andrât e lo stradone, e via a caso. Così ho capito certe cose. All’ombra il fango non si asciuga quasi mai, ma diventa un fango diverso, molle ma non sprofondante. Basta imparare a mettere i piedi, correndo, in un certo modo, e si galleggia. Ho imparato come sputare in acqua, nel fiume, permetta la commistione intima tra uomo e natura; vedere le acque che sciolgono e ingoiano il mio sputo rilassa. Quasi come i rami bassi. Ho imparato che siamo schiavi delle telecomunicazioni, ma questo lo sapevo già, solo che a volte cerco di dimenticarlo. Qualche hanno fa averi nascosto le chiavi dell’auto sul ramo di un albero. Ora giro col marsupio che suda assieme al mio culo. Brutta storia. Ma nemmeno tanto se penso che un tempo non averi potuto fare foto come faccio adesso. Bisogno che tutto cambi perché tutto resti uguale. Aveva ragione Tomasi Di Lampedusa. Comuque questi erano preamboli. La vera cosa che ho imparato è stato come saltare un ostacolo, come un ramo di traverso. Ho capito perché quelli dei tremila siepi appoggiano sopra il piede, invece che saltare. Saltano sopra, diciamo. È per via dell’incertezza. Se salti e non tocchi l’ostacolo, non sai se hai saltato abbastanza per non toccarlo. L’incognito, lo sconosciuto che aspetta sotto al piede in volo. È lui che ti blocca, che spaventa. Allora cosa ho fatto. Ho saltato sopra al ramo. Sopra. La pianta del piede che tocca il legno. Lo sentivo sotto, schiacciato del mio peso, prigioniero. E un prigioniero non è un’incognita, non è un imprevisto. È roba mia, che non mi spaventa. Allora li ho capiti, quelli dei tremila siepi. Non sono stanchi. Sono avversi al rischio.


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